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Personale. Al lavoro oltre i 67 anni nella Pa. I sindacati bocciano l’idea: “Servono assunzioni”. Esclusi incentivi per chi sceglie di rimanere


L’ipotesi di abolire l’obbligo di ritiro, allargando quello che già avviene per medici farebbe risparmiare lo Stato sulla spesa previdenziale e sui concorsi, che procedono a rilento

In dieci anni tutto è cambiato. Nel 2014 il governo impose la cessazione automatica da 67 anni per i dipendenti pubblici. L’obiettivo era di sfoltire i ranghi della Pa. Ora si valuta il contrario: cresce l’ipotesi che oltre alle eccezioni già previste tutti i dipendenti pubblici possano decidere di continuare a lavorare fino a oltre i 70, o anche oltre. Il rinvio della pensione sarebbe del tutto volontaria e non porterebbe né all’innalzamento dei requisiti, né ad un cambio delle condizioni. Il fatto che la misura debba portare un risparmio per le casse dello Stato sembra escludere che ci siano anche degli incentivi a rimanere.

La risposta dei sindacati

L’ipotesi «non è accettabile e non è tra le misure da mettere in campo». dice il responsabile delle politiche previdenziali della Cgil, Enzo Cigna. E, spiega, riguarderebbe pochissime persone e solo con le qualifiche alte, ovvero quelle che non arrivano a 67 anni con un lavoro faticoso alle spalle. “Anziché trattenere i dipendenti e fare ancora cassa sulle pensioni – dice – bisognerebbe fare nuove assunzioni e fare entrare più giovani e donne senza che siamo costretti a uscire dal nostro Paese per trovare lavoro, la pubblica amministrazione ha bisogno di nuove competenze”.

“Lo stesso ministro Zangrillo ha confermato le nostre proiezioni – afferma il segretario confederale Fp Cgil Florindo Oliverio – entro i prossimi tre anni usciranno dai 400 mila ai 500 mila lavoratori nella Pa, un milione entro il 2030. Significa che serve un piano straordinario di assunzioni, e per rendere veramente appetibile il posto pubblico bisogna garantire stipendi migliori, indennità di trasferimento almeno per i primi due anni per chi si deve spostare da un’altra Regione, e le procedure devono funzionare: i neoassunti dell’ufficio del processo sono entrati in servizio a giugno, ma non hanno ancora ricevuto uno stipendio».

Inoltre, spiega Oliverio, “con una norma di questo tipo i dipendenti potrebbero decidere fino all’ultimo momento se andare in pensione a 67 anni o rimanere fino a 70, il che renderebbe molto difficile per le amministrazioni fare i piani dei fabbisogni triennali”. Piuttosto che mantenere in servizio personale esausto, sarebbe meglio, conclude il sindacalista, “attingere alle graduatorie degli idonei, dove ci sono diverse decine di migliaia di aspiranti dipendenti pubblici”.

“Anni fa avevamo proposto un contratto di mentorship per i dipendenti esperti che si sarebbero occupati di preparare i giovani appena assunti per il ministero della Difesa, dove da alcuni anni c’era una carenza endemica di dipendenti. Ci è stato detto di no: la conseguenza è che adesso si rischia di chiudere alcuni stabilimenti. – afferma il segretario della UilPa Sandro Colombi – Far rimanere i dipendenti in servizio altri tre anni è l’ulteriore conferma che non si stanno facendo concorsi a sufficienza, e che le famose 170 mila assunzioni annue di cui parla il ministro Zangrillo riescono appena a coprire il turnover. Nelle funzioni centrali dagli ultimi dati è emerso che per la prima volta nella storia si è scesi sotto i 200 mila dipendenti: sono appena 195 mila”.

Di mentoring tra dipendenti anziani e neoassunti parla anche Marco Carlomagno, segretario del sindacato autonomo Flp: “Dare la possibilità anche alle altre categorie penalizzate dal taglio dei coefficienti per la pensione di rimanere al lavoro un po’ più a lungo, come avviene per il settore sanitario, è giusto, e l’anno scorso avevamo sollevato la questione, quando erano stati escluse le altre categorie penalizzate dal taglio. Ma deve trattarsi di una scelta volontaria, da valorizzare con attività di mentoring nei confronti dei neoassunti. Spostare più in là l’età della pensione non deve diventare in nessun caso un modo per frenare o rinviare le assunzioni dei giovani, necessarie non solo a causa della carenza di personale, ma anche per via delle nuove tecnologie. Servono anche programmi seri di formazione specialistica, possibilità di carriera sulla base delle competenze acquisite.”.

Apertura da parte della Cisl a condizione che, precisa il segretario confederale della Cisl Ignazio Ganga, “venga lasciata al dipendente la libertà di scegliere”. “Un’iniziativa di questo tipo potrebbe essere utile per non disperdere professionalità ancora in grado di dare un contributo alle istituzioni e al Paese. – prosegue Ganga – In nessun caso deve essere introdotta una qualche forma di vincolo o di penalizzazione. Si tratta in ogni caso di una proposta che dovrebbe essere oggetto di un confronto con i sindacati nell’ambito di un tavolo che affronti le varie questioni della previdenza”.

Medici, professori e Forze dell’ordine

Oltre al risparmio c’è una motivazione operative, l’età media del pubblico impiego è alta e si aprono enormi buchi di personale già ora è prevista l’eccezione per i medici che possono rimanere fino a 72 anni. Secondo l’Aran il 16% dei dipendenti è over 60. Nel 2023 a fronte di 170mila nuovi ingressi le pensioni liquidate sono state circa 150mila, guardando soltanto alla gestione dipendenti pubblici dell’Inps. Ma se si considerano le uscite volontarie di chi passa al privato, il saldo diventa velocemente negativo.

Già ora nella Pa lavorano 100 mila pensionati (a cui sono stati incarichi di dirigenza) come consulenti e formatori. Il problema è ancor più grave in prospettiva per le forze dell’ordine dove peraltro i criteri d’uscita sono regolati come lavori usuranti

da “La Repubblica”, di Rosaria Amato

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